Inquinamento, fattori socio-economici
e psicologici, malattie infettive: sono alcuni dei 'nemici del
cuore 3.0' che si sommano a quelli tradizionali (colesterolo,
diabete, ipertensione e fumo). E' quanto emerge da un'ampia
review appena pubblicata su European Heart Journal coordinata da
ricercatori di Fondazione Policlinico Universitario Agostino
Gemelli Irccs - Università Cattolica, in collaborazione con
prestigiosi esperti americani (Deepak Bhatt del Mount Sinai di
New York e Sanjay Rajagopalan della Case Western Reserve
University di Cleveland), che prende in esame i fattori di
rischio cardio-vascolare del terzo millennio.
A farla da padrone, secondo lo studio, è l'inquinamento
atmosferico (dell'aria, del suolo, dell'acqua, esposizione a
sostanze chimiche, ma anche quello luminoso e sonoro) alla base
anche dei cambiamenti climatici che a loro volta impattano sulla
salute del cuore. Ma ci sono anche i fattori socio-economici e
psicologici (stress, depressione, isolamento sociale) e malattie
infettive come l'influenza e il Covid-19, "con le quali facciamo
pesantemente i conti ogni inverno".
"Sebbene negli anni i trattamenti contro i fattori di rischio
tradizionali siano diventati sempre più efficaci e abbiano
contribuito non poco a ridurre incidenza e conseguenze della
cardiopatia ischemica - sottolinea Rocco Montone, cardiologo
presso la UOC Cardiologia Intensiva di Fondazione Policlinico
Universitario Agostino Gemelli Ircss-Università Cattolica -
questa resta la principale causa di morte nel mondo. Per questo
l'attenzione si sta allargando dai fattori di rischio
tradizionale, a tutto ciò che ci circonda, al mondo del quale
siamo immersi, fatto di inquinamento, virus, problemi economici
e psicologici che, a loro volta, possono contribuire in maniera
sostanziale a determinare e perpetuare il problema 'cardiopatia
ischemica'. Questi fattori di rischio - prosegue Montone -
interagiscono in modo imprevedibile, spesso potenziandosi tra
loro. Ecco perché è necessario considerarli nella loro totalità.
La nostra review fa dunque il punto su come l'esposizione a
lungo termine a questi possa contribuire alla comparsa di
cardiopatia ischemica e suggerisce quali potenziali strategie di
mitigazione del rischio andrebbero messe in atto".
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